{mosimage}L'azienda di Fausto Faccia verso la cessione: «Era un gioiello, calpestato dagli istituti senz’anima»
BAGNOLI DI SOPRA (Padova) — E’ la storia di un uomo strano: imprenditore e idealista. Un uomo che scala un campanile per urlare la dignità perduta del popolo; un uomo che non cerca il favore politico, non lo vuole, anzi, lo detesta, almeno quanto detesta i giornalisti e gli articoli che parlano di lui, come questo. E’ la storia di un’azienda, la sua, che lui ha voluto rilanciare sognando la soddisfazione comune di operai, impiegati, dirigenti e proprietari «parché se ga da far el ben de tuti»; un’azienda, la Unifast di Bagnoli, nel padovano, che ora ha finito il carbone per mandare avanti la vaporiera con i suoi 55 dipendenti, 14 milioni annui di fatturato e circa 400 lavoratori dell’indotto. La prospettiva è quella: chiusura o vendita. Un grande dolore, per Faccia, che nell’azienda ha investito tutto senza pensare troppo al resto: né una villetta almeno manageriale né una barchetta simbolica, giusto per dire ci sono anch’io. Ha dovuto ricorrere alla cassa integrazione straordinaria per i suoi dipendenti che da sette mesi sono senza stipendio e protestano, scioperano, sbandierano. «Hanno sbagliato a scioperare perché gli ordini c’erano, potevamo riprenderci alla grande…».
Ma il vero problema non sono i dipendenti che fino a quest’anno non erano mai stati sindacalizzati. «Per forza, li abbiamo sempre pagati più della media, ci tenevamo molto a queste cose», ricorda la sorella di Fausto, Alessandra, che siede sulla tolda di comando dell’amministrazione. Il problema è un altro: «La banche, tre milioni di smobilizzo che non ci sono più. Hanno chiuso i rubinetti. Avevamo otto milioni di euro di ordini che non abbiamo potuto evadere. L’ultima macchina che ha inventato Fausto per le aziende zootecniche, per il mangime, funzionava ed è stata un successo. Avevamo conquistato nuovi mercati, Giappone, Brasile. Eravamo in controtendenza rispetto alla crisi e pensavamo addirittura di assumere altre 15-20 persone. Ma le banche hanno detto basta, finiti gli affidamenti». Qualcosa non torna: se gli ordini c’erano, l’azienda andava, per quale ragione le banche avrebbero dovuto chiudere i rubinetti? «Con la crisi un momento di sbandamento c’è stato, una cosa superabile però dice Fausto – Il problema è che quando una banca grossa comincia a dirti di no, tutte le altre le vanno dietro e così noi ci siamo trovati con sette degli otto istituti che hanno bloccato i fidi». Ne era rimasta una sola, la più piccola, la Cooperativa Euganea di Conselve.
Locale, dimensione umana, rapporto diretto con il funzionario. Tutti elementi che al serenissimo Faccia piacciono molto. «Ma a comandare sono i giganti e con i giganti tutto questo viene a mancare. Lì parli con i numeri, lì decidono i megamanager che non vedi, che non ascoltano, che non sanno. Parli con chi non può o non ti capisce perché sei piccolo e non interessi. E allora tutto diventa difficile e si avvita e quando uno di questi dice no, anche tutti gli altri dicono no. I piccoli istituti erano disposti a continuare a concedermi il credito ma hanno detto: non possiamo farlo da soli, se i grossi mollano dobbiamo mollare anche noi». Alla fine hanno mollato tutti e Faccia è rimasto con le ruote sgonfie. «La situazione è questa. Il Veneto delle piccole e medie aziende come la nostra, questa terra che produce ricchezza con l’anima non può essere schiacciata da istituti senz’anima ». A ripeterlo come un ritornello è Alessandra: «Azienda sanaaa!».
Fonte: www.corriere.it