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Il Serenissimo e le banche «Mi hanno strozzato, vendo»

26 de agosto de 2009 - Por Comunità Italiana

{mosimage}L'azienda di Fausto Faccia verso la cessione: «Era un gioiello, calpestato dagli istituti senz’anima»

 

BAGNOLI DI SOPRA (Padova) — E’ la storia di un uomo strano: imprenditore e idealista. Un uo­mo che scala un campanile per urlare la dignità perduta del po­polo; un uomo che non cerca il favore politico, non lo vuole, an­zi, lo detesta, almeno quanto de­testa i giornalisti e gli articoli che parlano di lui, come questo. E’ la storia di un’azienda, la sua, che lui ha voluto rilanciare sognan­do la soddisfazione comune di operai, impiegati, dirigenti e pro­prietari «parché se ga da far el ben de tuti»; un’azienda, la Uni­fast di Bagnoli, nel padovano, che ora ha finito il carbone per mandare avanti la vaporiera con i suoi 55 dipendenti, 14 milioni annui di fatturato e circa 400 la­voratori dell’indotto. La prospet­tiva è quella: chiusura o vendita. Un grande dolore, per Faccia, che nell’azienda ha investito tut­to senza pensare troppo al resto: né una villetta almeno manage­riale né una barchetta simbolica, giusto per dire ci sono anch’io. Ha dovuto ricorrere alla cassa in­tegrazione straordinaria per i suoi dipendenti che da sette me­si sono senza stipendio e prote­stano, scioperano, sbandierano. «Hanno sbagliato a scioperare perché gli ordini c’erano, poteva­mo riprenderci alla grande…».

Ma il vero problema non sono i dipendenti che fino a quest’anno non erano mai stati sindacalizza­ti. «Per forza, li abbiamo sempre pagati più della media, ci teneva­mo molto a queste cose», ricor­da la sorella di Fausto, Alessan­dra, che siede sulla tolda di co­mando dell’amministrazione. Il problema è un altro: «La banche, tre milioni di smobilizzo che non ci sono più. Hanno chiuso i rubinetti. Avevamo otto milioni di euro di ordini che non abbia­mo potuto evadere. L’ultima macchina che ha inventato Fau­sto per le aziende zootecniche, per il mangime, funzionava ed è stata un successo. Avevamo con­quistato nuovi mercati, Giappo­ne, Brasile. Eravamo in contro­tendenza rispetto alla crisi e pen­savamo addirittura di assumere altre 15-20 persone. Ma le ban­che hanno detto basta, finiti gli affidamenti». Qualcosa non tor­na: se gli ordini c’erano, l’azien­da andava, per quale ragione le banche avrebbero dovuto chiu­dere i rubinetti? «Con la crisi un momento di sbandamento c’è stato, una cosa superabile però ­dice Fausto – Il problema è che quando una banca grossa comi­ncia a dirti di no, tutte le altre le vanno dietro e così noi ci siamo trovati con sette degli otto istitu­ti che hanno bloccato i fidi». Ne era rimasta una sola, la più picco­la, la Cooperativa Euganea di Conselve.

Locale, dimensione umana, rapporto diretto con il funzionario. Tutti elementi che al serenissimo Faccia piacciono molto. «Ma a comandare sono i giganti e con i giganti tutto que­sto viene a mancare. Lì parli con i numeri, lì decidono i megama­nager che non vedi, che non ascoltano, che non sanno. Parli con chi non può o non ti capisce perché sei piccolo e non interes­si. E allora tutto diventa difficile e si avvita e quando uno di que­sti dice no, anche tutti gli altri di­cono no. I piccoli istituti erano di­sposti a continuare a conceder­mi il credito ma hanno detto: non possiamo farlo da soli, se i grossi mollano dobbiamo molla­re anche noi». Alla fine hanno mollato tutti e Faccia è rimasto con le ruote sgonfie. «La situazio­ne è questa. Il Veneto delle picco­le e medie aziende come la no­stra, questa terra che produce ric­chezza con l’anima non può esse­re schiacciata da istituti senz’ani­ma ». A ripeterlo come un ritornello è Alessandra: «Azienda sanaaa!».

La sorella non condivide tutti gli ideali di Fausto ma quello del be­ne comune aziendale sì. Quanto guadagna? «Non ho problemi a dirlo: io prendo 60 mila euro al­l’anno, lordi, e sono amministra­tore unico di una società da 14 milioni di fatturato, non so se rendo». Se queste sono le cifre non si è molto arricchita con la Unifast. Quanto meno non sulle spalle dei suoi dipendenti. I quali sono comunque rimasti senza pane e per questa ragione hanno mostrato i denti. «Qualche svi­sta, qualche errore da parte no­stra ci sarà sicuramente stato ma sempre in buona fede, mai pen­sando al tornaconto personale, solo a quello aziendale, comune, nostro e loro», aggiunge Faccia. Non vogliono vendere, anche se il 25 settembre c’è un appunta­mento in Tribunale per il falli­mento. Ci sono tre cordate dispo­ste a comprare ma loro stanno cercando di tener duro, perché la cosa più importante è la crea­tura. «Non abbiamo problemi a piazzare l’azienda – assicura Ales­sandra – Non riesco però ad ac­cettare l’idea di dover vendere un’azienda che funziona». Fausto ha in sé un idealismo galoppante, anacronistico, diffici­le da comprendere. Lo infastidi­scono la retorica, le pacche sulle spalle, le corsie preferenziali. «E’ un puro», garantisce chi lo cono­sce bene. Per esempio, non dirà mai che Unifast chiude perché non ha appoggi politici, essendo serenissimo. Potrebbe essere la verità ma non fa parte del suo ba­gaglio mentale, non arriva nep­pure a pensarlo. «Io ho seguito i canali ufficiali: sono andato in Provincia e in Prefettura a segna­lare la crisi e nessuno mi ha aiuta­to ». Lo dice malinconico, dialetta­le, pensando ancora una volta al­la grande distanza che separa la realtà dal mondo che gli frulla nella testa: «Se nel sistema non ci sono gli anticorpi per salvare un corpo sano, il sistema è mala­to. E bisogna buttarlo via. Come dicevamo noi quel giorno sul campanile di San Marco. E non scrivere nulla».

 

Fonte: www.corriere.it

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